Economia - Regione
Mascherine piemontesi in tessuto: non vanno bene
I dubbi degli esperti del Politecnico di Torino sulle mascherine prodotte in Piemonte: quelle in tessuto non vanno bene. E poi, per la Fase 2 occorrerebbero milioni di mascherine che non ci sono
Tutto pronto, o quasi, per la Fase 2. Quasi, perché se parliamo di mascherine pare che non ci siamo. Eppure, questo dispositivo medico di protezione è uno dei “pezzi forti” delle nuove disposizioni per autorizzare le riaperture e l’allentamento del lockdown. In parole povere, per poter uscire di casa (e lavorare) dobbiamo per forza avere la mascherina ma, soprattutto, dobbiamo essere sicuri che questa ci protegga, altrimenti tanto vale mettersi un fazzoletto davanti alla bocca – come i banditi di una volta.
Le mascherine piemontesi non vanno bene
A mettere in dubbio l’efficacia e la validità delle mascherine made in Piemonte è un’esperta e docente del Politecnico di Torino, Alice Ravizza. La prof.ssa che avverte come le mascherine in tessuto prodotte da diverse aziende piemontesi (che per l’occasione si sono riconvertite), non assicurano lo stesso filtraggio di quelle chirurgiche: queste ultime, infatti hanno un potere di filtrazione dell’aria pari al 95%, il che assicura una quasi totalità di protezione. Al contrario, quelle in tessuto non hanno lo stesso livello di filtraggio, esponendo di conseguenza al possibile contagio da parte del Coronavirus Covid-19. In più, la quasi totalità di queste mascherine non possiedono la certificazione necessaria.
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Di mascherine non ce ne sono
Se dunque non possiamo usare le mascherine in tessuto, perché non sicure, l’alternativa sono le mascherine chirurgiche. Ma se dovessimo mai pensare a una soluzione del genere questa bloccherebbe la ripresa il 4 maggio, perché significherebbe una richiesta di almeno 80 milioni di mascherine in un solo mese: cosa praticamente impossibile, dato che non ne esistono sul mercato così tante; la Regione non ne ha così tante e, infine, si sottrarrebbero agli operatori sanitare che ne hanno di certo più bisogno.
Le “mascherine di comunità”
La prof.ssa Ravizza, ingegnera biomedica, fa parte del progetto per la ripartenza curato dall’Ateneo torinese, ed è proprio lei a cercare una soluzione per consentire la riapertura delle attività lavorative e dare agli imprenditori la possibilità di trovare un’alternativa sicura alle mascherine non adatte. Il “tessuto” ideale per la produzione di mascherine adatte all’uso lavorativo non sanitario è il TNT (acronimo di tessuto non tessuto). Questo materiale molto duttile può essere lavorato da decine di imprese piemontesi che il Politecnico intende far certificare dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS). Queste nuove mascherine saranno definite “mascherine di comunità”, e troveranno il loro posto accanto alle più famose Ffp2 ed Ffp3, attualmente usate nei reparti Covid-19, e a quelle chirurgiche utilizzate dagli operatori sanitari.
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Per il lavoro basta l’85%
Le mascherine di comunità avranno una capacità filtrante dell’85% che, secondo Ravizza, sarà più che sufficiente se utilizzate in un ambiente di lavoro dove si sarà obbligati a rispettare le regole e i controlli, e dove si dovrà recare soltanto chi è in salute. Ma, lo ricordiamo, le aziende che possono farlo sono tenute a incrementare e mantenere attivo lo smartworking – unico modo certo per evitare nuovi contagi e il sobbarcarsi una spesa in mascherine eccessiva e non gestibile da parte delle aziende.
Immagine di copertina rappresentativa. Credit: pixabay-willfried-wende